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Manifesto del movimento

 

 

Prefazione

 

La presente opera nasce dall’esigenza di riformulare e ricostruire un programma ideale di sinistra improntato alla concretezza nel perseguire i suoi obiettivi di trasformazione socioculturale, all’eradicazione della superstizione e alla lotta all’oscurantismo della religione, alla democrazia reale (diretta, in primis, e rappresentativa con mandato imperativo, in secundis) allo Stato di diritto, alle libertà personali, alle libertà politiche (multipartitismo in particolare), alla tutela dei lavoratori e, in ultimo, ma non per ultimo, ai criteri di distribuzione della ricchezza esistente.

Lo scrivente parte dalla convinzione che i programmi politici che a vario titolo hanno pervaso i vari Stati del mondo traendo ispirazione dalla tradizione critica marxista siano stati viziati alla fonte dalla volontà di creare regimi totalitari ed anti-sociali.

Del resto, i risultati conseguiti nei luoghi in cui detti partiti hanno potuto governare depongono a triste favore della bontà della suddetta ipotesi. Se così non fosse, si tratterebbe altrimenti di uno dei più grossolani ed insostenibili casi di eterogenesi dei fini che la storia abbia mai avuto la possibilità di registrare.

 

Perché un programma di sinistra?

 

Sinistra in opposizione alla destra, si tratta della tradizionale classificazione dei poli di tendenza politica insiti in un corpo sociale. Detta dicitura dicotomica, nata durante la rivoluzione giacobina, si caratterizza per la sua asetticità: non fornisce due termini descrittivi e assommanti le qualità individuate come distintive dei rispettivi programmi.

Due termini che invece assolvono ad una tale funzione sono: progressista e conservatore. Tuttavia, i due termini asettici continuano a mantenere un maggior uso comune, secondo un’abitudine alimentata anche dai mass-media. L’impressione è comunque che l’uso del termine progressista, piuttosto che del termine sinistra, possa favorire l’ottenimento del consenso popolare, e ciò in ragione del giudizio di valore positivo di cui esso è intrinsecamente portatore.

Si assiste spesso oggigiorno ad improbabili attacchi alla validità della distinzione tra destra e sinistra.

Nel presente periodo storico, dietro a tali sproloqui è da ritenersi presente un’attività di propaganda da parte di ambienti di destra, che dissimulando la propria identità e i propri scopi tentano di convincere persone con una pessima instruzione (purtroppo la maggioranza allo stato) a votare per un partito che propone ricette di destra, conservatore dello status quo.

Evidentemente deve essere un bel grattacapo riuscire a convincere le persone che è meglio preferire un programma politico di destra, conservatore, piuttosto che uno di sinistra, progressista, che appunto aiuti la civitas progredire. Meglio fingere che la distinzione non abbia senso.

Se c’è una cosa proverbiale, comunque, è la capacità dei propagandatori dell’idiozia in parola di riuscire a sostenere la loro tesi senza la benché minima necessità di argomentarla. Basta uno slogan e dirsi moderni; avanti! e il gioco è fatto.

Le parole sono oggetti convenzionali, assumono il significato che una comunità sceglie di attribuire loro.

Per “forza politica di sinistra”, nei nostri dialoghi, intenderemo: quelle forze politiche che al netto della loro azione complessiva sono state concretamente in grado di migliorare la qualità della vita di una determinata comunità politica e di rendere più probabile la futura elisione dalla società di quella predatorietà naturale che contraddistingue la cristallizzazione giuridica attuale dei rapporti di natura.

Sinistra è quindi, per conseguenza, negazione della brutalità dell’esistenza e concezione, al fine di costituzione, di una società i cui membri siano effettivamente liberi ed eguali, in cui l’interesse collettivo coincida sempre con l’interesse personale; e non per una restrizione di quello personale di fronte a quello collettivo, ma per una loro convergenza organizzativa.

Risulta facile, dunque, in negativo, definire i caratteri del polo opposto, ossia della “destra” (i quali sono quindi impliciti nella definizione di cui sopra).


 

Critica del marxismo

 

Marx autodefinì scientifico il suo socialismo, e il mondo intero pare gli abbia finora creduto sulla parola. Paiono quasi incredibili il vigore e la rapidità con cui il marxismo, nelle sue varie scuole più o meno ortodosse, ha saputo monopolizzare il radicalismo di sinistra. A sinistra del marxismo, all’occhio dell’uomo medio incolto, non parrebbe esservi nulla (se non le scuole del socialismo formatesi antecedente a Marx, e da egli stesso definite utopistiche, con utopia qui intesa nel senso lato di luogo che non c’è e che mai potrà essere). Non è necessario conoscere la critica che Karl Popper (filosofo della scienza che ha contribuito a definire i novecenteschi canoni della scoperta scientifica) rivolse alle teorie onniesplicative ed infalsificabili di Freud e del nostro economista-filosofo di Treviri, per ravvisare - anche prima facie - nel pensiero marxista, elementi fondamentali dello stesso del tutto avulsi dal campo di indagine scientifica, veri e propri dogmi di fede, che meriterebbero di essere sin dal principio esposti come mere ipotesi scarsamente supportate induttivamente, se non fondate su una visione complessiva della realtà incoerente.

La subdola forza dell’opera di Marx ed Engels è stata certamente nel saper frammischiare, in un unico corpo dottrinale, alcune accurate analisi economiche (la parte buona) con le anzidette distorsioni della ragione, finendo così per forgiare le basi di programmi ed azioni politiche che hanno finito per funzionare - come già poteva prevedersi nella teoria - da strumenti di preservazione di uno status quo iniquo.

L’analisi di Marx dei rapporti di produzione della ricchezza nelle varie fasi storiche ha il merito di riconoscere l’opera di sfruttamento, operata con mezzi diversi, ma sempre comunque perpetrata, da parte di un’aristocrazia sul resto della società. Nell'epoca moderna e contemporanea, il capitalista, il solo soggetto privato a cui l’ordinamento - riconoscendo la proprietà privata dei mezzi di produzione - finisce per riconoscere il potere di iniziativa nella produzione economica (la quale finisce così per essere indirizzata non nell’interesse collettivo ma nell’interesse di parte del capitalista) e il diritto di pieno godimento dei profitti da essa derivanti, acquista il lavoro degli altri uomini - al pari di un qualsiasi altro input della produzione - ai quali invece l’ordinamento impone, pena l’esclusione dall’accesso ai mezzi necessari al sostentamento o ad vita dignitosa, di vendere (nell’esperienza storica reale, sempre ad un prezzo di enorme sfavore dettato dalla posizione di debolezza del lavoratore rispetto al detentore di capitale) il proprio lavoro. Un altro contributo prezioso di Marx sta nell’aver scoperto la tendenza del salario a mantenersi al livello tale da garantire solo la sussistenza del lavoratore e la riproduzione di prole da parte della classe lavoratrice, e altresì nell'analisi dei cicli economici del capitalismo con le sue fisiologiche crisi, la sua fisiologica e perenne disoccupazione, la progressiva diminuzione del saggio del profitto dovuta all’impiego nel sistema capitalista dell’automatizzazione produttiva.

Ciò detto, quel che mi preme più analizzare in questa sede sono tuttavia gli aspetti problematici del marxismo, nella convinzione che solo attraverso una loro ferrea critica si possa individuare una via d’uscita dalla palude in cui questa controproducente ideologia politica - da sempre baluardo di schiere e schiere di intellettuali d’ogni dove sedicenti di sinistra, da sempre presentata dall’establishment accademico e mediatico in modo acritico, come avvolta in una sorta aurea mistica - ha incatenato la parte sfortunata dell’umanità in un'epoca in cui la rivoluzione poteva essere ma non fu e in un epoca in cui le riforme potrebbero esserci ma la c.d. sinistra non le propone.

 

Critica del materialismo storico e dialettico

 

"Il modo di produzione e di appropriazione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, è la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l'ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione"

 

(K. Marx "Il Capitale", libro I, pag. 826. Traduzione tratta dalla seconda edizione tedesca del 1872 e così riportata da Engels nell'Anti-Dhuring).

 

La teoria marxista fa sue le seguenti due convinzioni:

 

a) che a governare totalmente i processi storici vi sia unicamente la materia. Ovverosia, interpreta - categoricamente - l’agire delle masse, così come di qualsivoglia altro gruppo sociale, o dei singoli, come effetto della consequenzialità inevitabile, determinata unicamente dalla materia che li compone e da quella con cui entrano in contatto.

 

b) che la storia abbia una sorta di progressione unidirezionale, tale che il culmine di essa dovrà necessariamente coincidere con la - lunga nel tempo - instaurazione (da parte del proletariato e della sua avanguardia) per via rivoluzionaria, di una società nella quale gli uomini saranno liberi dal lavoro, così come è oggi inteso, ed elimineranno alla fine lo sfruttamento dei propri simili per la più che sovrabbondanza dei beni disponibili data dalla (teoricamente fumosa negli scritti dei padri fondatori) gestione comunista della produzione.

 

Veniamo ora alla critica della prima convinzione elencata.

Nessuna persona sensata e in buona fede potrebbe mettere in dubbio che la realtà dinamica dei fenomeni naturali presenti una ferrea regolarità. Tale premessa è alla base della scienza moderna - la quale pare aver dato all’umanità ben più che sufficiente prova empirica della fondatezza del suo metodo - e non è dunque certo questo l’obiettivo della critica che muoverò in questa sede.

Anche l’agire umano è quindi sacrosanto che venga studiato col metodo scientifico, tuttavia, giungere all’affermazione che gli esseri viventi (uomo in primis, considerata la sua rilevanza all’interno del nostro discorso) non abbiano la possibilità di scegliere tra delle alternative disponibili e, in tal modo, rifiutare che essi non siano semplice oggetto passivo degli eventi, ma soggetti in grado governali (secondo le varie possibilità materiali che gli si presentano nelle condizioni di tempo e di luogo - all’interno delle quali sono da ricomprendersi le conoscenze e capacità tecniche dell’essere vivente di riferimento) secondo la propria volontà, oltre a costituire un’affermazione che appartiene all’ambito della filosofia e non alla scienza (d’altronde è lo stesso Marx a qualificare come scientifica la sua opera, anche in particolare contrapposizione con quella di coloro che l’hanno preceduto, per cui è corretto esigere, dal suo complesso teorico, coerenza con tale affermazione) costituisce un’asserzione contraria all’esperienza diretta di ogni uomo (e qui non siamo, ribadisco, nel campo della scienza, ma in quello più ampio della filosofia). Il marxismo tende dunque ad omologare esseri viventi ed oggetti, sostenendo che i primi dispongono di una volontà propria tale e quale che i secondi (l’unica differenza che permarrebbe tra di essi starebbe dunque nel fatto che i primi fanno esperienza delle cose, si trovano a percepirle, ad avvertire dolore e piacere, caldo e freddo).  Gli esseri viventi capiscono cosa succede attorno a loro, sono coscienti, gioiscono e si rattristano, ma in tutto ciò non possono prendere decisioni, esse sono, per Marx, una mera illusione - il loro futuro è già scritto come in un copione cinematografico e non potranno nulla per cambiarlo, solo sono destinati a farne esperienza.

Ciò che nel marxismo è presentato come una legge di natura, è in realtà una prescrizione per il popolo, il quale si spera di convincere subdolamente alla subordinazione al sistema economico vigente, il quale è in realtà imposto arbitrariamente da una classe egemone che è invece ben conscia che le condizioni economiche vigenti altro non sono che il prodotto volontario della loro costruzione culturale.

Il liberal-egualitarismo si trova quindi di fronte ad una prima necessità; sotto il profilo eziologico esso opera un ribaltamento rivoluzionario delle fondamenta marxiane: la cultura è causa degli assetti economici, e non viceversa.

L’obiettivo della costruzione filosofica marxiana dovrebbe essere di per sé evidente: a nulla aiuta la ricerca scientifica a liberarsi dall’oppressione millenaria dell’oscurantismo ecclesiastico, essa, nel momento in cui Marx scrive, sta vivendo la sua epoca d’oro di rinascita, essa è già la forma culturale adottata dalle classi dominanti - non è questo l’obiettivo che potrebbe essere addotto a discolpa di una tale impostura intellettuale; gli obiettivi, in realtà sono molteplici - e noi, dalla nostra privilegiata posizione storica, possiamo giudicare dell’esiziale efficacia del mezzo utilizzato per realizzarli - per mostrarveli compiutamente ho però prima la necessità di esporvi la critica del punto b).

Quest’ultima non dovrebbe richiedere molte parole, la stessa affermazione di per sé lascia trasparire con grande chiarezza tutta la sua arbitrarietà ed infondatezza razionale (figuriamoci quella scientifica). Nemmeno le religioni più sfacciate sono mai arrivate a tanto, infatti, se non altro esse ammettono che occorre fede per credere alle loro parole, Marx, invece, si autodichiara figlio della ragione e della scienza. Evidentemente era ben cosciente che la sua opera reazionaria avrebbe dovuto smuovere e convincere delle persone (non personalmente interessate alla preservazione dello sfruttamento come metodo di organizzazione della società, in primis poiché non integrate nella classe dirigente) con scarsa capacità critica e soprattutto ignoranti della natura della scienza.

Non dovrebbe comunque stupire quanto appena detto, se nel passato la classe dominante ingannava il popolo con il mezzo principe della superstizione, ed era costretta quindi ad elaborare favole e miti su cui fondare arbitrari sistemi morali che potessero funzionare da sostrato al complesso giuridico vigente e al sistema di produzione e distribuzione della ricchezza, nell’epoca successiva alla rivoluzione dei lumi, qualunque nuova menzogna ha la necessità (pena la perdita consistente di efficacia persuasiva) di autodichiararsi fondata sul rigore del metodo scientifico.

In fin dei conti, dobbiamo porci una domanda: dispone - e, ha mai disposto - il popolo degli strumenti intellettuali per riconoscere la scientificità di una teoria che dissimula con erudita eleganza la propria arbitrarietà reazionaria ed ideologica (e che, nel suo reale contenuto, come se non bastasse, il popolo conosce in modo distorto e superficiale - ad essere buoni)?

D’altronde, col marxismo tutto è permesso, tutto è politicamente corretto, dall’osannazione acritica e fideistica all’affermazione che “i comunisti mangiano i bambini”, ma guai a mettere anche solo in dubbio - da sinistra - le sue autodichiarate fondamenta epistemologiche.

 

Gli effetti combinati dei paralogismi qui denuziati, sembrano essere i seguenti:

 

- inibizione di un’analisi elitista dei processi storici (in favore di un’analisi che pone il processo storico in una prospettiva teleologica dipendente dalla necessità di fatto e non dalla volontà dei soggetti agenti; detta analisi, per svolgere la sua funzione mistificatrice in modo più coerente, si trova altresì a dover costruire delle categorie sociali in conflitto compatibili con una siffatta costruzione teorica - su quest'ultimo aspetto tornerò più avanti)

 

- rassegnazione nelle classi sfruttate ed escluse (se non sussiste il metodo di produzione necessario nella sua forma di maturazione adeguata, la rivoluzione - e dunque il cambiamento in senso migliore delle condizioni di vita - non può avvenire)

 

- la relegazione arbitraria del ruolo della cultura (come del diritto) a effetto del metodo di produzione (la marxiana sovrastruttura), il ruolo causale non può mai ritenersi inverso nell’universo di Marx

 

- la delegittimazione aprioristica di tutte le teorie politiche autodichiaratesi di sinistra che non facciano propri i dogmi reazionari di cui stiamo trattando

 

- indebolimento degli sforzi della sinistra non marxista di apportare - per via non necessariamente rivoluzionaria - modifiche all’ordinamento in senso immediatamente, come programmaticamente, utili all’eguaglianza sostanziale ed alla libertà personale.

 

Il materialismo onniesplicativo è uno dei punti controversi del marxismo. Una delle sue conseguenze è quella di sterilizzare sul piano teoretico il potere della volontà. Gli avvenimenti storici e le diverse forme sociali conosciute nel tempo e nello spazio sono il risultato di un susseguirsi necessario di eventi determinati unicamente da rapporti materiali. Le forze sociali sono impossibilitate a condursi in modo difforme da quell’unico modo in cui la loro condizione materiale (in primis, ad influire è il tipo di rapporti di produzione) permette loro. Non è difficile cogliere la portata devastante in termini di programmazione politica di una siffatta affermazione. Se gli schiavi non hanno potuto realizzare una rivoluzione di sinistra è perché non vi erano le condizioni materiali, e ugual discorso vale per i servi della gleba; ma non per i proletari! i quali - nella profezia marxista - sono invece sì destinati a tal compito, e lo svolgeranno nel momento in cui vi saranno le apposite condizioni materiali.

Dette condizioni materiali sono presentate da Marx come l’esasperazione della contraddizione tra proletariato e Capitale. Si verranno a creare le condizioni adatte alla rivoluzione quando lo sfruttamento del proletariato avrà raggiunto il giusto punto di fermentazione.

Un programma politico di sinistra non può - già per principio - che rigettare tali conclusioni, e se necessario, per coerenza logica, fare lo stesso anche con le premesse da cui discendono.

Non si intende così certo mettere in dubbio la regolarità dei fenomeni naturali, principio fondante della conoscenza scientifica (la quale è tenuta in altissima considerazione dallo scrivente) quanto, invece, solo e unicamente stigmatizzare delle asserzioni presentate come di per sé evidenti, e assunte da Marx senza sentire la necessità di argomentarle adeguatamente.

Tra l’esperienza dei soggetti viventi (le loro conoscenze, le loro volontà e le azioni che ne conseguono) e il resto della materia, esiste una relazione che presenta le medesime caratteristiche di regolarità studiabile che presentano anche tutti gli altri fenomeni di cui si interessa la scienza. L’uomo, tuttavia, nell’esperire la vita, pare avere la solida convinzione di essere padrone del suo agire, di poter compiere delle scelte. Di fronte al mistero dell’esistenza, voler escludere con certezza che le scelte che realizziamo di compiere ogni istante non siano in realtà il frutto di una scelta, bensì il frutto della necessità, appare più una professione di fede che un atto di cognizione. Sostenere la fondatezza cognitiva del materialismo dialettico sarebbe impossibile, mentre assurdo è sostenere che esso ha un fondamento scientifico, in quanto la questione non riveste un tema di giurisdizione della scienza, semmai della filosofia.  

La concezione che si contrappone al materialismo storico - e che il liberal-egualitarismo fa sua - è ben enucleata dalla dialettica hegeliana: lo scontro tra lo spirito vivente, la coscienza collettiva (data dalla somma vettoriale delle coscienze singole), e la materia in senso stretto, è parte del processo di tesi-antitesi-sintesi.

Definiremo in termini antitetici il pensiero-cultura e le forze materiali (tra le quali sono ricompresi ovviamente i rapporti di produzione). Appare chiara la loro intercambiabilità con la terminologia hegeliana, della quale si è preferito fare a meno per via delle implicazioni reazionarie che suggerisce.

Il pensiero-cultura è sì il prodotto delle forze materiali, ma al contempo ne è anche una forza ordinatrice. Il rapporto si articola dunque in un modo tale che le forze materiali determinano necessariamente il primo contenuto del pensiero-cultura, ma quest’ultimo, per il suo carattere vivo, semi-autonomo, ragionatore, elaboratore, ne rimodula la forma e con l’azione ritrasmette alle forze materiali il primo contenuto, declinato in base alla particolare sensibilità del pensiero-cultura del singolo caso.

Quanto appena esposto deve essere visto come la esemplificazione di una serie continua di interscambi.

Tengo a dire che l’adozione di un siffatto sistema filosofico - che sono io stesso il primo a dire essere del tutto ipotetico - come base per elaborare un programma politico di sinistra è stato reso necessario solo in quanto occorreva disporre di una filosofia onniesplicativa alternativa (anzi, antitetica) a quella propinata dal marxismo.

La differenza con quest’ultimo sta nel fatto che il liberal-egualitarismo (essendo solo un programma politico - libero nel fine ex definitione - niente di meno e niente di più) non ha la pretesa di definirsi scientifico, e non ha di conseguenza la necessità di dissimulare la mera strumentalità dialettica del sistema in parola.                                                                             

Il materialismo dialettico, in assenza di una sua compiuta critica, continuerà ancora ad essere utilizzato in futuro, come è stato fatto finora, per combattere alla radice teoretica quei disegni politici di sinistra che assumono come un proprio indefettibile elemento programmatico gli intenti di riforma radicale che di seguito esporrò.

L’educazione di quella parte del popolo che è povera e che attualmente non riceve un’istruzione adeguata alla formazione di cittadini consapevoli deve essere considerata la base materiale, pianificata e ottenuta mediante la volontà, per la realizzazione del liberal-egualitarismo.

A tal fine occorre ripensare buona parte del nostro attuale sistema educativo scolare e pre-scolare, defanatizzare gli sport, abolire la religione, abolire la pubblicità, creare degli istituti pubblici a frequenza obbligatoria per la formazione del cittadino, ricreare nella cittadinanza le condizioni di benessere socio-economico ottimali alla buona riuscita del piano.

 

Critica delle categorie antagoniste

 

La inadeguatezza delle categorie classiste contrapposte da Marx è rinvenibile da ambedue le prospettive dalle quali è possibile osservarne l’antitesi.

Lo scontro tra capitale e lavoro è ovviamente reale nella società attuale, tuttavia, il marxismo, impostando la sua critica classista partendo dal plusvalore come prima discriminante, finisce consequenzialmente per ricomprendere la categoria dei lavoratori intellettuali nella categoria ontologicamente nemica dei capitalisti.  

In realtà, come l’esperienza storica ha avuto modo di insegnarci, la categoria in questione ha un fondato interesse prevalente a preservare lo status quo. Essa è inoltre alla base della classe che ha dominato lo sfruttamento delle masse negli stati autoritari comunisti.

Il liberal-egualitarismo pone dunque come prima discriminante dell’antagonismo tra ceti sociali: le asimmetrie culturali, ossia non tanto il folklore e le tradizioni, bensì quella disparità di conoscenza che permette ai pochi l’eterodirezione della volontà dei molti nel proprio essenziale interesse, la quale assume diverse sfumature e modalità di espressione nelle più varie circostanze concrete dei rapporti della vita.

Le categorie antagoniste, in realtà non dicotomiche, sono allora da rinvenire tendenzialmente e senza pretesa di assolutezza mediante un’analisi realistica degli interessi concreti ed immediati della molteplicità di ceti ed individui che compongono una comunità politica. La spinta alla conservazione è dunque patrimonio anche di quei ceti sociali che, sebbene sfruttati in termini di plusvalore, si trovano a condividere coi capitalisti un immediato e concreto tornaconto in termini di qualità complessiva della vita e magari un ruolo marginale di potere sociale.

La regola che si trae dal criterio anzidetto, risulta però, come accennato, violata da rare eccezioni che si danno evidentemente dalla naturale predisposizione al bene o al male dei vari singoli soggetti. Perciò, la particolare tendenza di un soggetto potrà determinare la sua spinta politica in una direzione opposta a quella dele altre persone appartenenti al proprio ceto, tale per cui, ad es., un capitalista o una capo di Stato potrebbe lottare per il popolo, e quindi decidere di perdere non solo i suoi privilegi, ma anche di rischiare di perdere la sua stessa vita in nome di un ideale di bene, in nome della Giustizia oggettiva.

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In sintesi, il Movimento per la Rinascita Italiana si dichiara un movimento di sinistra liberale, anticlericale ed egualitario, un movimento che nasce dal Popolo e che reclama sovranità per il Popolo, un movimento che vede come figura di riferimento Rousseau e non Marx, un movimento in contrasto con la dottrina marxista la quale non dà vita a un governi di sinistra bensì a governi di tipo illiberale ed iniquo.

Democrazia diretta, mandato imperativo, in Italia prima i cittadini italiani, redistribuzione della ricchezza, uscita dall'U.E., lotta alla superstizione e alla religione, libertà di iniziativa economica, rivoluzionamento delle leggi che regolamenteno il mercato pubblicitario, lotta al crimine organizzato mediante legalizzazione delle sostanze psicoattive ora illegali; sono tante le proposte di riforma che portiamo all'attenzione del dibattito politico, quelle elencate sono solo una parte del nostro programma per rendere l'Italia un Paese davvero migliore.

Combattiamo insieme per la rinascita italiana!

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